LA VITA

L’Alfieri nella Vita scritta da esso ha energicamente sottolineato la nascita tarda della sua poesia e ha impostato un drammatico contrasto fra la dissipazione degli anni giovanili e la sua “conversione” poetica e insieme politica e morale. E certo l’impostazione di tale “conversione”, di tale profonda presa di coscienza della propria vocazione e della propria missione (pur insidiata da ritorni di pigrizia, di inerzia, di dissipazione) non può essere in alcun modo negata o diminuita in tutta la sua energica serietà di scelte decisive per l’attività letteraria e culturale dell’Alfieri e per la sua stessa vita che, dopo la “conversione”, oppone all’irrequietezza precedente la ricerca, pur non sempre riuscita, di una stabilità propizia alla concentrazione e al lavoro artistico.

E tuttavia nel lungo periodo precedente alla “conversione” (mentre lo stesso Alfieri nella Vita indagava fin nella zona della puerizia i primi «sintomi di un carattere appassionato» cercando di verificare in essi «il prodotto d’un animo caldo e sublime» piuttosto che «leggiero e vanaglorioso»[1]) è dato trovare non solo, appunto, i segni di una personalità originale e potente, in forte, crescente attrito reattivo con il costume del suo tempo, ma germi di idee e intuizioni pur legati ad una esperienza, fra moda dilettantesca e snobistica di “giovin signore” e piú autentiche reazioni geniali ad aspetti della vita, della cultura, della politica e della stessa letteratura del secondo Settecento, fra illuminismo e annunci preromantici.

L’Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749, dal conte Antonio, erede di una famiglia di nobiltà terriera con lontane origini feudali[2] (morto quando il bambino non aveva ancora compiuto il primo anno di vita) e da Monica Maillard de Tournon, nobile savoiarda, passata presto a nuove nozze, ma sempre venerata dal poeta per la sua vita austera e la sua «ardentissima eroica pietà con cui si [era] assolutamente consecrata al sollievo e servizio dei poveri»[3].

In un ambiente domestico severo e regolato da una estrema misura nell’esercizio degli affetti, dominato da un’educazione chiusa ed angusta, il fanciullo fu spinto dalla sua esuberante natura a cercare sfogo nell’affetto ardente per la sorella Giulia o nel vagheggiamento per i volti «giovenili, e non dissimili da’ visi donneschi» dei fraticelli novizi della chiesa del Carmine, o nei puerili compensi eroici delle «storiette» narrate nella Vita: l’orgoglio dimostrato nell’ostentare la ferita al capo prodottasi facendo «l’esercizio alla prussiana» o il tentativo di suicidio mangiando un’erba creduta cicuta.

«Storiette» e «fattarelli» che, uniti a quelli del suo cocente dolore per la punizione della reticella, dello sdegno per il sopruso e l’ipocrisia dell’accordo fra la madre e il confessore, l’Alfieri raccolse nella Vita a segnare i primi sintomi del suo carattere fiero, appassionato e malinconico, bisognoso di una ben diversa possibilità di espansione di affetti e insieme disposto ad una intensa vita di fantasia e memoria che trova eccezionale documento nella storietta del proustiano ridestarsi di sensazioni primitive, a lungo dimenticate, alla vista di un particolare oggetto capace di provocarne l’improvviso e denso ritorno[4].

Nel 1758 il ragazzo fu “ingabbiato”, per volontà del tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, nella Reale Accademia di Torino, dove egli trascorse otto anni di ineducazione, «asino, fra asini, e sotto un asino», per uscirne nel 1766 col grado di «Porta-insegna» nel Reggimento Provinciale di Asti. Quell’educazione poté ben apparire all’Alfieri maturo inutile e vuota perché formalistica, retorica, senza interessi letterari, storici o filosofici, propinata in un latino pedantesco e scolastico (come scolastica e peripatetica era la filosofia «papaverica» che vi si impartiva), espressione culturalmente retriva di una politica culturale e scolastica quale sostanzialmente era quella dello Stato piemontese sotto Carlo Emanuele III, cosí fortemente lontano dalla volontà di riforme dei governi di Vittorio Amedeo II e vòlto alla formazione di burocrati e di militari soprattutto come sudditi fedeli e acritici.

Sicché l’interesse del giovinetto d’eccezione si volse semmai, in una solitudine visitata da «fierissime malinconie», a letture private e clandestine: dall’Eneide del Caro, letta «con avidità e furore», a opere di Metastasio e Goldoni, ai romanzi aristocratico-cavallereschi della Scudéry, a quelli sentimentali e «libertini» del Prévost e del Lesage, o magari alle Mille e una notte: letture che variamente assecondavano – in netto contrasto con i «non-studj» dell’Accademia – lo sviluppo delle qualità fantastiche, sentimentali, eroiche dell’adolescente, mentre queste trovavano uno stimolo eccezionale nei primi contatti con la musica a cui, nella reinterpretazione della Vita, l’Alfieri collegava i primi segni della sua vocazione poetica e del suo romantico sentimento doloroso e drammatico della musica, della poesia e del loro profondo rapporto:

Nelle vacanze di quell’anno di Filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le opere buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare lo zio architetto, che mi dové albergare quella notte in casa sua; stante che codesto teatro non si poteva assolutamente combinare con le regole della nostra Accademia, per cui ogni individuo dev’essere restituito in casa al piú tardi a mezz’ora di notte; e nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del Re, dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo carnevale. Quell’opera buffa ch’io ebbi dunque in sorte di sentire, mediante il sotterfugio del pietoso zio, che fece dire ai superiori che mi porterebbe per un giorno e una notte in una sua villa, era intitolata il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori buffi d’Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta da uno dei piú celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per cosí dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni piú interna fibra, a tal segno che per piú settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studj, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d’idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch’egli fu assai maggiore d’ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle recite dell’opera seria ch’io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il piú potente e indomabile agitatore dell’animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta piú affetti, e piú vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell’atto del sentir musica, o poche ore dopo.[5]

Né van dimenticate, nell’ultimo periodo di vita nell’Accademia, quelle conversazioni con giovani nobili stranieri che rafforzarono nell’Alfieri la sete di viaggi, esperienze, avventure in un mondo piú libero, pur contribuendo inizialmente a velare la sua prospettiva di giovin signore europeo di una patina di moda esterofila e snobistica che piú tardi, nella satira IX, I Viaggi, l’Alfieri denunciava come causa del modo sbadato e leggero con cui egli avrebbe compiuto il primo viaggio in Italia – uscito dall’Accademia nel 1766 –, seguendo le tappe obbligate dei manuali stranieri di viaggi e soddisfacendo soprattutto il suo bisogno di viaggio veloce e di divertimenti sfrenati, come sfogo della sua intima irrequietezza.

Ben piú importanti, invece, furono i primi viaggi europei, nel ’67-68, in Francia, Inghilterra e Olanda, durante i quali ha inizio la piú vera e importante formazione del giovane che, uscito dal Piemonte assolutistico e retrivo, prepara, nelle nuove esperienze europee, la sua prospettiva antitirannica; avvicina, a vario livello di profondità, la mentalità del pieno illuminismo, e insieme dà piú ampio sfogo al suo profondo bisogno di passioni e di spettacoli naturali, accendendo cosí la sua sensibilità violentemente preromantica.

Cosí, se importante per il concentrarsi della sua passione politica è l’esperienza viva e diretta della libera vita inglese, fondamentali per una prima realizzazione del suo bisogno di affetti sono il “primo amore” per una signora olandese e l’amicizia per il ministro portoghese d’Acunha che si intrecciano potentemente:

Io dunque mi trovava felicissimo nell’Haja, dove per la prima volta in vita mia mi occorreva di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l’amica, e l’amico. Amante io ed amico, riamato da entrambi i soggetti, traboccava da ogni parte gli affetti, parlando dell’amata all’amico, e dell’amico all’amata; e gustava cosí dei piaceri vivissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti al mio cuore, benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richiedendo, e additando come in confuso.[6]

E quell’amore, culminato in un tentativo di suicidio, provocava a sua volta un fervore di idee creatrici e un nuovo desiderio di studi, attuato poi nell’inverno del ’68-69, quando l’Alfieri, rientrato a Torino, si dedicò alla lettura dei grandi illuministi e di Plutarco.

Vi è anzitutto, fra queste letture, quella della Nouvelle Héloïse del Rousseau, che però lo deluse per un’impressione di sentimentalismo troppo ragionato, cerebrale e letterario:

[...] benché io fossi di un carattere per natura appassionatissimo, e che mi trovassi allora fortemente innamorato, io trovava in quel libro tanta maniera, tanta ricercatezza, tanta affettazione di sentimento, e sí poco sentire, tanto calor comandato di capo, e sí gran freddezza di cuore, che mai non mi venne fatto di poterne terminare il primo volume.[7]

Impressione molto significativa (anche se certo rafforzata nella rielaborazione dell’uomo maturo) per misurare la distinzione fra il preromanticismo energico e violento dell’Alfieri da quello piú analitico, morbido ed enfatico del «maître des âmes sensibles».

Né molto gli dette il Contrat social, che gli apparve astruso e che doveva ripugnare con il suo forte accento democratico all’istintivo libertarismo piú individualistico dell’Alfieri. Piú importante invece la lettura delle prose di Voltaire, che in parte conosceva sin dal 1765 e che rimangono fondamentali nella formazione alfieriana con la loro lezione di prosa lucida e rapida, con il loro implacabile spirito polemico e satirico, con i loro potenti motivi anticlericali e antidogmatici, con la loro forza critica e le loro acri venature pessimistiche. Negli anni piú tardi l’Alfieri attaccherà Voltaire in nome di esigenze preromantiche e sembrerà vergognarsi di esserne stato «scimiotto» nell’Esquisse, ma, come ha notato il Fubini, molto di voltairiano rimane nelle sue Satire e nelle sue Commedie e molto contribuí la lettura di Voltaire alla chiarezza e lucidità del suo spirito critico, alla forza dei suoi motivi di rivolta anche quando si appuntarono contro le precise posizioni illuministiche. Ché se l’accento della spiritualità alfieriana è chiaramente preromantico, se i suoi motivi piú profondi e le sue aspirazioni lo portano in realtà assai piú avanti e in contrasto con la cultura illuministica, è pur vero che egli riprende, svolgendoli in maniera nuova, molti spunti illuministici e voltairiani, e dell’illuminismo rimane in lui lo spirito audace e critico, la lucidità razionale ed estremistica.

Cosí come si può dire per la lettura di Helvétius, del suo Esprit, di cui nella Vita ricorda la «profonda impressione». Anche qui, nella seconda stesura, aggiunse una parola limitativa («ma sgradevole») ben in accordo con il suo atteggiamento piú tardo e originale, con la sua scontentezza della spiegazione materialistica e sensistica (fondamentale in Alfieri è il dramma del preromantico chiuso in una concezione sensistica e meccanicistica della vita e pure incapace di trovare nuove soluzioni ideali piú adatte al suo ardente bisogno spirituale); ma in quel periodo egli aderí toto corde a quella filosofia, specie nella formulazione suggestiva ed estrema di Helvétius che insieme esaltava la libertà, attaccava in forma risoluta ogni forma di assolutismo politico ed ogni compromesso prudente (nella prefazione al libro De l’homme, l’illuminista francese dirà che «prudente» è uguale a «vile»), metteva in primo piano le forti passioni. E motivi antiassolutistici, anche se in forma piú moderata e nell’ideale di una monarchia liberale e costituzionale (poi piú direttamente ripreso nella commedia L’Antidoto, quando l’Alfieri ripiegò sulla proposta di quella forma di governo), il giovane lettore trovava nelle opere di Montesquieu, che furono alimento fondamentale del suo pensiero politico in formazione, valendo anche come giustificazione della sua anglomania (a cui pur contribuiva il Voltaire con le sue Lettres sur les Anglais).

Mentre un’altra lettura, quella delle Vite parallele di Plutarco (lette nella versione francese del Dacier e quindi importanti anche per la formazione della sua prosa francese) portava, in quel momento decisivo dei suoi «studj filosofici», della sua formazione intellettuale, un nuovo e piú profondo stimolo al suo odio antitirannico, al suo culto delle grandi personalità, al suo sogno eroico di libertà reso piú affascinante dalla suggestione dei tempi classici, delle repubbliche greche e romana.

Né si deve dimenticare, accanto alle letture di Plutarco, di quel «libro dei libri» letto e riletto con «trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche»[8] (e si noti come questa lettura è caratterizzata nella Vita con le stesse parole piú o meno adoperate per le piú alte passioni amorose e per la scoperta della propria vocazione poetica, ribadendo cosí la comune radice passionale dei suoi affetti, della sua aspirazione politica, della sua esperienza della poesia), la lettura di Montaigne e dei suoi Essais che lo accompagnarono nei viaggi e che rappresentano nella formazione alfieriana la voce di una saggezza virile (che andrà sempre meglio precisandosi e facendosi sua e originale negli anni piú tardi), l’incoraggiamento alla meditazione morale, all’esame di se stesso, all’introspezione, che avranno sviluppo concreto soprattutto nei Giornali e che contribuiranno a quella disposizione autobiografica cosí ricca e complessa culminata poi nella Vita.

Quell’inverno fu pertanto veramente decisivo per la vita dell’Alfieri e quelle letture e meditazioni nutrivano la sua mente fervida e sollecitavano le sue passioni piú profonde[9], chiarivano il suo bisogno di cose grandi ed alte, di esperienze risolutive, stimolavano la sua insoddisfazione e la sua potente irrequietezza, la ricerca di un impiego adeguato della propria energia spirituale, mentre l’acquisto di nuove idee, la conoscenza degli elementi piú nuovi della cultura europea lo distaccavano sempre piú dalla possibilità di vivere nel piccolo e arretrato Piemonte, di rientrare negli schemi di quella società angusta e illiberale (donde l’insuccesso di due tentativi del cognato di dargli moglie e di avviarlo alla carriera diplomatica, a cui pure egli aveva prima pensato come a soluzione di compromesso), e gli permettevano di vedere con occhi piú chiari quella stessa Europa a cui prima si era rivolto con generico entusiasmo e spirito di evasione e con un indiscriminato desiderio di novità e di esterofilia di moda.

Naturalmente non senza ragione, nella Vita, l’Alfieri potrà rilevare l’insufficienza della sua formazione[10] e la relativa immaturità della sua personalità che trova vera chiarezza ed unità solo nel periodo della “conversione” ed ha, anche nei suoi entusiasmi e nei suoi sdegni, ancora qualcosa di ingenuo e di goffo. E certo questo Alfieri voltairiano e sensista, «spirito forte» e «filosofo» (con componenti non ben fuse di saggezza montaigniana e di sufficienza razionalistica, di confusi ideali politici costituzionalistici e tirannicidi brutiani) non è l’Alfieri della maturità: in lui si mescolano elementi piú originali ed elementi di moda[11], e la ricchezza di velleità e di aspirazioni non corrisponde alla potente unità che porterà a lui la precisa scelta della poesia e di un piú organico atteggiamento politico e morale. Tuttavia, considerato nello sviluppo della sua personalità, nell’intreccio di adesioni culturali e di reazioni piú intime che è caratteristico della sua esperienza vitale, questo periodo segna un momento di arricchimento e di base essenziale alle sue nuove esperienze di avventure e di viaggi.

Con questa nuova base di cultura l’Alfieri affronta la sua nuova esperienza europea (Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Russia, Inghilterra, Olanda, Spagna e Portogallo) intrecciando la sua ansia inquieta di conoscenza di paesi, terre, costumi, di persone[12], di sensazioni forti, accresciuta dal gusto della velocità del viaggio, il suo bisogno di avventure passionali portate fino al parossismo, il suo insaziato bisogno di trovare una terra libera e di verificare concretamente il suo odio crescente per ogni forma di tirannide[13].

Elementi esplosivi e nascenti che si trovano autenticamente documentati ed espressi (in una forma ancora incerta e in toni oscillanti fra eccitata sensibilità, languori struggenti, forme di ironia e di sarcasmo, riflessioni immature e pur coerenti ad esigenze che troveranno consolidamento nella concentrata esperienza della poesia) in alcune lettere del 1771, da Londra, o riverberati parzialmente e violentemente nelle lettere incondite e pur efficacissime con cui il «fidato» servitore Elia riferiva al cognato del poeta sulla vita del giovane e preoccupante viaggiatore.

Si pensi anzitutto a quella lettera del 10 gennaio 1771 ai fratelli Sabatier de Cabre (l’uno a Liegi, l’altro a Pietroburgo) in cui, accanto a confidenze di un giovane libertino e a causeries brillanti ed oziose di un giovane snob e di un filosofo apprendista “alla moda”, spiccano alcuni giudizi decisi sulla corte di Caterina II, dove uno dei corrispondenti vive «gémissant dans le centre de la méfiance et de la tyrannie», sulla libertà goduta in Inghilterra, «au sein de la liberté même», e insieme si rileva l’affermazione entusiastica del suo istinto di libertà:

Je me sents si fort né pour l’être [homme libre], et j’en sents tellement l’impossibilité, que je regarde le peu de jours que je resterai ici, comme les seuls oú j’ai vécu en homme; je me compare à un coursier fier, et superbe, qui échappé du manège saute, court, et bondit dans une prairie: sa vivacité, sa force, et sa gayeté sont d’autant plus grandes, que la durée en est courte.

E, d’altra parte, il movimento pessimistico di una previsione catastrofica della prossima decadenza dell’Inghilterra e della sua libertà, con la conclusione desolata che, quando la libertà scomparirà anche dall’Inghilterra, non vi sarà piú un rifugio per essa:

[...] je m’attendris comme homme sur son malheureux sort, d’autant plus, que de tel côté, que je porte mes regards sur la vaste surface du globe, je n’y vois plus aucun réfuge à l’oppression, et à la tyrannie militaire, qui va peut être nous replonger dans une épaisse barbarie, dont il est problématique si nous en sommes totalement sortis.[14]

A queste importanti espressioni della nascente tensione alfieriana alla libertà nutrita di elementi dell’illuminismo e dell’educazione eroica plutarchiana, capace di individuare effettivi pericoli nella situazione politica e parlamentare inglese (i tentativi di assolutismo di Giorgio III e del partito degli “amici del re”) e insieme affascinata da un senso della libertà appoggiato alla forza, che portava in questo caso il giovane Alfieri ad esagerare il pericolo di inerzia del parlamento inglese di fronte a un piccolo episodio di controversia con la Spagna per il possesso delle isole Falkland, da cui l’Alfieri deduceva una mancanza del senso dell’onore in un popolo di mercanti, si intrecciano le prime velleità letterarie (il goffo sonetto amoroso allegato alla lettera citata) e l’ardente espressione del suo animo impetuoso ed estremistico nell’esercizio delle passioni. Quale risulta (conferma della “veridicità” sostanziale della Vita nella sua fedeltà di riproduzione di avvenimenti e soprattutto del tono di quegli avvenimenti nella sua formazione) nelle tre lettere a Penelope Pitt Ligonier, in cui la vicenda di quella passione, del duello con il marito tradito, della delusione finale è còlta nella sua fase iniziale fra gli impeti di gelosia e amore, le assicurazioni della insopportabilità della vita «miserabile» senza l’amore e la determinazione esaltante del suicidio come mezzo supremo di liberazione:

On est supérieur à tout, les malheurs d’ici n’excitent que du mépris, lorsq’on a la force de s’échapper: une âme forte est libre dans le plus grand esclavage, on ne voit plus les petits obstacles au moment oú l’on se determine à rompre le plus grand.

E come ritorno in quel

néant obscure, d’oú m’a tiré la malheureuse nature: je n’étois rien avant que d’avoir cette odieuse vie, je ne puis que redevenir rien.[15]

E su questa suprema concitazione di affetti tempestosi, esaltati, pessimistici, in questo attrito violento fra passioni, velleità espressive, slanci eroici e libertari, prendon valore insieme quei viaggi errabondi e incalzanti prima nel Nord Europa, poi nelle aride pianure spagnole, che trovano una documentazione efficacissima nella lettera di Elia da Pietroburgo[16] prima che nella rievocazione delle grandi pagine della Vita.

L’immagine del giovane che rema furiosamente nel viaggio in barca fra i ghiacci mentre il cameriere suona il violino bene appoggia, nelle rozze parole di Elia, il tono di furore esaltato, di estasi appassionata delle pagine della Vita, in cui l’Alfieri poi troverà piú adeguatamente il senso di quei sentimenti esaltanti di fronte ad un paesaggio desertico e sconfinato in accordo con la sua ansia di infinito:

Nella sua selvatica ruvidezza quello [la Finlandia] è un dei paesi d’Europa che mi siano andati piú a genio, e destate piú idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.[17]

Come poi, a proposito del viaggio in Spagna, l’Alfieri poté identificare nella eccitazione sentimentale e fantastica del suo errare per i deserti dell’Aragona la radice della sua vocazione poetica:

Disgrazia mia (ma forse fortuna d’altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti; ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime, infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che, se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono.[18]

La vocazione alla poesia si precisa cosí non su di una semplice via di apprendistato letterario, ma nell’attrito complesso dell’esperienza, pronta a rivelarsi, come l’Alfieri ricorda nella Vita, alla lettura da parte del Caluso, a Lisbona nel ’72, della mediocre, ma propizia ode del Guidi alla Fortuna (propizia per il suo tono grandioso e agonistico-eroico) che, trasportando il giovane ascoltatore «a un segno indicibile», in «un impeto veramente Febeo», in un «rapimento entusiastico per l’arte della poesia»[19], avrebbe chiarito a lui di esser nato per la poesia se ne avesse posseduto i mezzi tecnici espressivi.

Alla ricerca del possesso di questi mezzi (ma sempre sulla spinta non di un semplice esercizio astratto, bensí di elementi del suo animo e della sua interna dialettica culturale e spirituale ed anzi proprio nella fase di una crisi risolutiva) l’Alfieri si applicò, soprattutto al termine dei viaggi europei, che tanto avevano contribuito all’ampliamento del suo orizzonte culturale, della sua esperienza politica ed umana.

Applicatosi con maggiore regolarità (mentre componeva le prime tragedie: Cleopatra, Filippo, Polinice) al recupero di una cultura letteraria non ignorata, ma fino allora poco approfondita (lettura e studio dei classici italiani, studio del latino) e sentita da lui sempre piú come preparazione necessaria alla sua espressione poetica e come impossessamento di una tradizione concreta di fronte alla sua formazione linguistica ibrida e alla sua cultura piú dilettantesca e cosmopolitica, l’Alfieri (dopo avere alternato il soggiorno a Torino e la sua partecipazione alla nuova «Società Sampaolina» istituita dal conte G.E. Bava di Sampaolo a soggiorni a Cesana in Val di Susa, e poi, nel ’76, a Firenze e Pisa) decise di fermarsi piú stabilmente in Toscana per distaccarsi dal piccolo mondo torinese, malgrado le sue nuove aperture, culturalmente insufficienti per lui e pieno di tentazioni mondane, e per “italianizzare” sempre piú il suo «concetto», per impadronirsi sempre meglio di una organica lingua italiana scritta e parlata secondo i modi vivi di quella toscanità che egli sempre vagheggiò e ammirò fino al suono e accento «soavissimo, e vibratissimo», fino ad esclamare, in un sonetto piú tardo, proprio per la bellezza della lingua: «Deh, che non è tutto Toscana il mondo!»[20]. Si stabilí cosí nel ’77 a Siena dove, alternando recite nel diletto «saloncino» accanto al Duomo a conversazioni con i suoi nuovi amici (primo fra tutti quel Francesco Gori Gandellini che divenne per lui l’esemplare raro dell’amico perfetto[21] e dell’uomo libero condannato a vivere in bassi tempi di servitú), portò avanti rapidamente la stesura di tragedie già ideate (Agamennone e Oreste), ideò e stese la Virginia e La Congiura de’ Pazzi, accanto alla composizione del trattato Della Tirannide in cui, esponendovi con lucida passione le sue intuizioni politiche piú ardenti e rivoluzionarie, di scrittore militante per la causa della libertà, egli maturò – passato alla fine del ’77 a Firenze, dove rimarrà fino all’80 – la decisione di un definitivo abbandono del Piemonte, di una definitiva rottura dei suoi vincoli di «vassallo» di un re assoluto[22] (“spiemontizzarsi” e “disvassallarsi”, come egli dirà nella Vita con due dei suoi energici neologismi), di realizzare concretamente la sua condizione di uomo libero e di libero scrittore. Per ottenere ciò egli fece donazione di tutti i suoi beni (alcuni erano beni feudali) alla sorella Giulia, contessa di Cumiana, in cambio di una pensione assai inferiore al reddito di quei beni: un atto solenne ed emblematico che non può essere meschinamente svalutato nella considerazione delle laboriose trattative e delle successive contestazioni per ritocchi e pendenze di quella cessione, o nella spiegazione unica e meno eroica che di quella cessione e “spiemontizzazione” sarebbe stata vera causa la necessità dell’Alfieri di assicurarsi libertà di movimento per seguire l’oggetto del «degno amore» cui si era legato, appunto a Firenze, nella persona di Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d’Albany, giovane moglie infelice dell’anziano Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra. Del resto quel «degno amore», con cui l’Alfieri sentiva di aver definitivamente superato le tentazioni della dissipazione in avventure e passioni episodiche, avvilenti, delusive, costituiva pure un elemento e un momento essenziale della sua nuova situazione generale di serietà e severità, di concentrazione in idee, affetti, lavoro di supremo impegno e di alta nobiltà spirituale. La bellezza della donna, «ardente» e «gentile» (uno degli abbinamenti a contrasto tipici dell’aspirazione alfieriana a eccezionali incontri di tensione e tenerezza, di fierezza e mitezza, di alterezza e di umanità), amata sin nella singolare qualità fisica degli occhi «nerissimi» con un loro «dolce focoso», della capigliatura bionda, della carnagione «candidissima» (e insieme affascinante perché infelice ed anche per la sua stessa condizione regale che non mancava di attrarre l’antitirannico ma aristocraticissimo Alfieri) e le qualità del suo animo riconosciuto alto e sensibile (né importa poi che la d’Albany si dimostrasse, specie nella vecchiaia, spesso assai dura, assai attenta alle proprie fortune, né priva di certa volgarità che poté portarla a mal comprendere il fondo dell’uomo che aveva avuto compagno), provocarono nell’Alfieri un affetto profondo e duraturo, da lui sentito nell’alto valore dell’amore come incentivo nobilitante degli animi grandi e stimolo essenziale ad azioni e pensieri eroici e poetici. Ed egli riconobbe in esso un fattore essenziale della sua «letteraria libertà» che insieme rifiutava (secondo uno dei principi alfieriani paradossalmente consequenziari) la condizione del matrimonio e della procreazione di figli in tempi di tirannia.

Per salvare quel legame di affetto e la sua donna dalla gelosia e dalla violenza del vecchio marito abbrutito dall’alcool, l’Alfieri dové organizzarne la fuga prima in un monastero e poi a Roma presso l’ingenuo cognato, il cardinale di York, che a lungo si illuse sulla vera natura dei rapporti dei due amanti e permise al poeta – dopo un soggiorno a Napoli – di stabilirsi per vari anni a Roma (dall’81 all’83) accanto alla Stolberg. Fu questo uno dei periodi piú felici della vita dell’Alfieri (e ne riparlerò in relazione all’attività poetica culminata nel Saul, scritto appunto nell’82 a Roma), che ne rievocò nella Vita la singolare «bellezza»:

La villa Strozzi, posta alle Terme Diocleziane, mi avea prestato un delizioso ricovero. Le lunghe intere mattinate io ve le impiegava studiando, senza muovermi punto di casa se non se un’ora o due cavalcando per quelle solitudini immense che in quel circondario disabitato di Roma invitano a riflettere, piangere, e poetare. La sera scendeva nell’abitato, e ristorato dalle fatiche dello studio con l’amabile vista di quella per cui sola io esisteva e studiava, me ne ritornava poi contento al mio eremo, dove al piú tardi all’undici della sera io era ritirato. Un soggiorno piú gaio e piú libero e piú rurale, nel recinto d’una gran città, non si potea mai trovare; né il piú confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò, finch’io viva.[23]

Né si dimentichi per questo fervido periodo il vantaggio, per il poeta, delle recite in salotti e teatrini privati (quello della Pizzelli Cuccovilla, dell’ambasciatore di Spagna, Grimaldi) e delle conversazioni con uomini come Alessandro Verri o il Monti, che ben avvertirono la grandezza delle sue tragedie (che nella primavera dell’83 venivano pubblicate dal tipografo Pazzini di Siena) come la personalità dell’uomo, e sin la sua eccezionale, virile bellezza, creando intorno a lui un alone di ammirazione e di simpatia, che il poeta stesso caldeggiava, non senza un certo impiego di qualità diplomatiche poco congeniali al suo temperamento (si fece ricevere in Arcadia dove fu nominato pastore col nome di Filacrio Eratrastico, si fece ricevere dal papa tentando invano di fargli accettare la dedica del Saul) per conservarsi una situazione cosí propizia al suo amore per la d’Albany.

Tuttavia tanta singolare pieghevolezza, riscattata di fatto nelle opere di questo periodo e poi nella diffusione di un violento sonetto scritto nel 1777[24], nonché nelle pagine umiliate e autocritiche della Vita, in cui esplode il risentimento alfieriano per aver dovuto fingere e avvilirsi («Io fui dunque allora e dissimulato, e vile, per forza d’amore»[25]) di fronte a quei «pretacchiuoli» della curia, a quei cardinali, a quel papa contro cui intanto scriveva roventi epigrammi[26], non bastò a prolungare ancora una situazione cosí difficile: il cardinale di York aprí finalmente gli occhi e l’Alfieri fu invitato a lasciare Roma (partí il 4 maggio del 1783), inseguito da un coro di insulti di poeti cortigiani della curia romana, fra cui il Monti.

L’amarezza per il distacco dalla donna amata e per lo scandalo suscitato intorno a lei nella Roma ipocrita e bigotta, nonché quella per le accoglienze diffidenti ed ostili di molti critici alla edizione senese delle tragedie, imprimono di nuovo un ritmo drammatico alle vicende biografiche dell’Alfieri che prova una nuova irrequietezza, un nuovo bisogno di agitati viaggi nell’Italia settentrionale ed in Francia, sfogando la sua «ira e malinconia» nei pellegrinaggi romantici alle tombe dei grandi poeti (a Ravenna visita quella di Dante, ad Arquà quella del Petrarca), nelle numerose rime di questo periodo, in duri epigrammi contro i critici, specie toscani, mentre insieme cercava invano consigli sullo “stile” dai letterati piú illustri del tempo, Parini e Cesarotti, ricavandone solo la conclusione che lui solo poteva ritrovare «dove stesse il difetto» del suo stile tragico e «tentare di emendarlo» da sé con una lunga fatica di anni, che giungerà a compimento nella revisione delle tragedie pubblicate a Siena[27], e delle successivamente composte, nella definitiva edizione parigina del Didot (1787-1789). Che è conferma della singolare novità alfieriana, mal comprensibile alla luce delle altre poetiche contemporanee, e delle piú generali posizioni alfieriane, piú in attrito e contrasto che non in accordo e adesione con uomini, idee, atteggiamenti del proprio tempo.

Intanto, mentre la d’Albany otteneva la separazione ufficiale dal marito e il permesso di lasciare Roma e stabilirsi a Martinsburg in Alsazia, l’Alfieri alternò soggiorni in Italia, a Siena (dove moriva il Gori Gandellini), a Pisa, e in Inghilterra con visite alla donna amata, finché alla fine del 1785 poté ricongiungersi stabilmente con lei, prima in Alsazia (continuando alacremente la composizione delle nuove tragedie: Agide, Sofonisba, Mirra, e l’Idea e stesura del Bruto I, Bruto II, della tramelogedia Abele, la composizione del trattato Del Principe e delle lettere) poi a Parigi, dove visse dall’88 al ’92, attendendo assiduamente alle cure della ricordata edizione Didot delle tragedie (munito intanto del sussidio critico e autocritico dei Pareri sulle singole tragedie, sulla Invenzione, sulla Sceneggiatura, sullo Stile di tutte, e di lettere di discussione con i giudizi espressi dal Cesarotti e dal Calzabigi) e della edizione di Kehl delle rime, dei trattati e di altre opere minori. Tra queste prendeva posto un’ode, Parigi sbastigliato, in cui culminava un primo momento di partecipazione del poeta antitirannico alle iniziali fasi della grande Rivoluzione, che egli poteva sentire di aver in qualche modo preannunciato con la sua poesia e i suoi trattati politici, di cui aveva assecondato le speranze nelle ultime tragedie di libertà, i due Bruti, e nelle loro due dediche a George Washington e al «popolo italiano futuro» e persino nella lettera (in verità piuttosto ingenua) con cui aveva, il 14 maggio 1789, accompagnato l’invio del Panegirico di Plinio a Trajano a Luigi XVI, invitandolo a concedere spontaneamente al suo popolo quella libertà che invano Plinio avrebbe chiesto a Traiano. Mentre ancora nel ’90, nelle stesse lettere alla madre, piamente preoccupata per le novità rivoluzionarie, egli si faceva sostanzialmente giustificatore dei «mali passaggeri, da cui ne potrà forse ridondare un bene durevole», di una «scossa troppo forte, perché le cose si possano arrestare cosí presto»:

[...] e si spera il gran bene per l’avvenire [...] qui massime i mali, e gli abusi del passato governo erano giunti a tal segno, che di necessità dovea accadere quel che abbiam visto, e anche peggio.[28]

Né è casuale il fatto che l’amicizia piú vera che l’Alfieri contrasse a Parigi (dove pur ebbe rapporti con vari scrittori come il Suard, il Beaumarchais ed altri incontrati soprattutto nel salotto letterario e mondano aperto dalla d’Albany nel suo palazzo di Rue de Bourgogne) fosse quella con André Chénier, a cui aveva dedicato un Capitolo, significativo per l’intreccio di idee politiche e letterarie alla luce della loro “unanimità” di sentimenti e di opinioni, dichiarata entusiasticamente dallo stesso poeta francese.

In effetti in quelle stesse posizioni comuni all’Alfieri e allo Chénier era implicito il progressivo “disinganno” che l’Alfieri provò di fronte agli sviluppi piú radicali della Rivoluzione e soprattutto di fronte alla fase del Terrore, che lo portò ad una crescente e totale opposizione antirivoluzionaria e antifrancese, ad una sdegnata identificazione del «mostruoso governo» rivoluzionario con una nuova forma di tirannide incompatibile con la sua intuizione di libertà da cui pure riconosceva esser derivata la spinta della stessa Rivoluzione francese:

Mi basterà sol di dirle, che quand’io che incenso la libertà da che sono al mondo, mi trovo esser divenuto contrario, non ai principj mai, ma all’intera esecuzione di questo mostruoso governo che riunisce i mali di tutti, bisogna certamente o che non vi sia qui libertà affatto, o che io sia divenuto affatto un bue.[29]

Cosí scriveva il 16 giugno 1792 all’Albergati Capacelli poco prima di partire da Parigi (dopo un viaggio con la d’Albany in Inghilterra), come egli fece subito dopo la strage degli svizzeri del 10 agosto, incontrando all’uscita dalla città rischi e difficoltà drammaticamente narrati nella Vita.

L’Alfieri rientrava cosí definitivamente in Italia e, dopo un lungo viaggio, giungeva il 3 novembre a Firenze, dove avrebbe passato gli ultimi anni della sua vita nel luminosissimo palazzo Gianfigliazzi sul Lungarno Corsini, vicino a Ponte Santa Trinita, dove invano avrebbe poi cercato di visitarlo il giovane Foscolo, quando, sempre piú rinchiuso in se stesso e nei suoi tempestosi sogni, fra la malinconia appesantita o scossa dallo «sciroccaccio» o dalla tramontana (il cui arrivo segnava, depresso o esaltato, in calce a molti dei suoi ultimi sonetti) e l’ira inacerbita dalle delusioni e dal dissenso assoluto con il suo tempo, fra la scontentezza e la ricerca di una saggezza confortata dal nuovo studio dei classici, paradigma supremo di una vita perduta e mitizzata (è l’epoca del tardivo studio del greco, delle traduzioni dai classici latini e greci, dell’emblematica creazione dell’«Ordine d’Omero»), egli si creò un costume di vita sempre piú austero e solitario, impaziente di ogni rapporto convenzionale, di ogni socievolezza imposta dall’esterno, fermo in alcune rarissime amicizie (il Caluso lontano, gli ultimi superstiti della cerchia senese, qualche esule piemontese come Prospero Balbo o Cesare d’Azeglio, qualche altro aristocratico come Diomede Sorbello di Bourbon, nelle cui case continuò l’antico uso di recite private delle sue tragedie) e nell’amore per la d’Albany (non sostanzialmente incrinato da qualche vaga “distrazione” sensuale con donne rimaste misteriose), errabondo in lunghe cavalcate o passeggiate solitarie sui colli fiorentini, nel «vago Boboli» o alle Cascine, o tetramente concentrato nella solitudine di enormi chiese vuote, come lo ritrasse il Foscolo in una pagina del Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia scritto per lo Hobhouse:

Negli ultimi anni alternò irascibilità orgogliosa e profonda malinconia, che l’afflissero a vicenda tanto da renderlo appena responsabile delle sue azioni. Fu allora non di raro veduto l’Alfieri seduto nelle chiese tra il vespro e il tramonto, immobile e apparentemente rapito nell’ascoltare i salmi che i frati cantavano dietro lo schermo del coro; ma il modo della sua morte ci consente la congettura che non meditasse sulla religione, ma che cercasse quell’asilo per trovarvi la tranquillità solenne che sola prometteva temporaneo riposo dalle furie inesorabili che gli agitavano il cuore:

Due fere Donne, anzi due Furie atroci

tor’ non mi posso – ahi misero! – dal fianco:

Ira e Malinconia.[30]

Interpretazione foscoliana dell’ultimo Alfieri assai pertinente a coglierne il centro personale piú vero in mezzo alle contraddizioni non sempre ben dipanabili della sua meditazione sulla «immortal vita seconda»[31] (paradiso della gloria e degli uomini grandi piú che precisa adesione a motivi di fede), sul culto cattolico («Alto, devoto, mistico, ingegnoso»[32], ma da lui considerato piuttosto come errore “utile” ai piú che non conforto sicuro per l’uomo d’eccezione), del suo rovello etico-politico che lo portava, nell’esaltato odio misogallico e antirivoluzionario congiunto, ad applaudire ai successi delle armi austriache e magari delle stesse bande sanfedistiche, dei tutori (ahimè!) dell’«ordine» e della «proprietà», e insieme a investire tutte le parti in contrasto con un pari giudizio di infamia («Infami al par dei vincitori i vinti»[33]), cercando anche di risolvere, nella forma comico-satirica delle Commedie politiche, un problema di libertà garantita da leggi e forme istituzionali che piú profondamente poi mitizzava nella solenne forma di autoritratti del libero uomo e libero scrittore, sempre in dissenso e contestazione di ogni regime.

Ne derivava un’attività letteraria vasta e irrequieta (fra le Satire, il Misogallo, le ultime rime, le traduzioni, le sei commedie, la revisione e il completamento della Vita, scritta in prima stesura a Parigi nel ’90), cui ormai mancava la forza profonda dell’ispirazione che aveva animato le tragedie, come l’Alfieri stesso dolorosamente aveva constatato da tempo parlando delle «ultime scintille di un vulcano presso a spegnersi»[34] e come ribadiva, con amara autoironia, nel congedo della Vita, 14 maggio 1803: quando, pur immaginando un’eventuale prosecuzione della sua vicenda vitale e proponendosi di dedicarla alla lima di traduzioni e di opere recenti, e poi alla traduzione del De senectute di Cicerone, salutava il lettore rimandandolo a un ipotetico nuovo incontro «quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo Capitolo Ultimo della mia agonizzante virilità»[35].

In realtà da tempo egli si veniva preparando alla morte, che lo colse improvvisa poco dopo, l’8 ottobre del 1803.


1 V. Alfieri, Vita scritta da esso, ed. critica a cura di L. Fassò, 2 voll., Asti, Casa d’Alfieri, 1951, I, p. 43.

2 L’estrazione nobiliare è componente ineliminabile della personalità alfieriana e della sua prospettiva eroico-aristocratica e, mentre agisce come remora rispetto ad una concezione veramente democratica (cui pure, specie nella Tirannide, l’Alfieri si avvicina con una chiara contestazione della sua classe), vale però soprattutto a sorreggere la sua concezione antidispotica e anticonformistica, cosí come il suo violento disprezzo per la nuova classe borghese nei suoi aspetti di duro utilitarismo o di avidità economica, per commutarsi in caratteri di fierezza e di agonismo essenziali nella piú complessa genesi della sua poetica e della sua poesia. Né si dimentichi, a proposito della sua stessa scrittura poetica, quanto scrisse il Leopardi in un noto pensiero dello Zibaldone circa la franchezza e libertà di pensare e scrivere dello scrittore nato nobile. Deve esser poi chiaro ed ovvio che la ricordata commutazione etico-poetica di un’estrazione e condizione sociale è pur personale e alfieriana quando la si confronti con il ben diverso atteggiamento cortigiano di tanti altri nobili del suo stesso tempo. Ché anzi, come vedremo, già nel giovanile Esquisse du Jugement Universel l’Alfieri aggredisce proprio anzitutto componenti della sua classe. In un certo modo la stessa sua particolare “aristocrazia” lo distingue nettamente da un intellettuale organico della nobiltà e lo porta a una concezione del ruolo dell’intellettuale e dello scrittore libero che ebbe una forza dirompente di fronte a quella dell’intellettuale e scrittore cortigiano e collaboratore del potere, che in tutt’altro contesto storico, o in tutt’altra direzione e condizione precisa, poté agire persino su uomini come Gobetti ed altri antifascisti di varie generazioni e può essere di stimolo tuttora per chi, pur nella prospettiva di una società di «liberi ed eguali», ritiene essenziale, non per privilegio ma per dovere, collaborarvi con una continua carica di responsabilità personale e di critica ad ogni forma di collaborazione gregale e di “pifferi dietro la rivoluzione”.

3 Vita cit., I, p. 11.

4 Si ricordi l’episodio dello zio che faceva porre ritto il bambino «su un antico cassettone, e quivi molto accarezzando[lo] (gli) dava degli ottimi confetti». «Io non mi ricordava piú quasi punto di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai piú veduto da me che io aveva uso di ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch’io avea provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia» (ivi, p. 12).

5 Ivi, pp. 41-43. E si veda anche quest’altro brano relativo al soggiorno a Napoli nel 1767 (ivi, p. 70): «Il mio piú vivo piacere era la musica burletta del Teatro Nuovo; ma sempre pure quei suoni, ancorché dilettevoli, lasciavano nell’animo mio una lunghissima romba di malinconia; e mi si venivano destando a centinaja le idee le piú funeste e lugubri, nelle quali mi compiaceva non poco, e me le andava poi ruminando soletto alle sonanti spiagge di Chiaja e di Portici». 6 Ivi, p. 89.

6 Ivi, p. 89.

7 Ivi, p. 93.

8 Ivi, p. 93.

9 Né va trascurato quello stesso studio dell’astronomia fatto nell’inverno ’68-69 e che, limitato dalla sua antipatia per la geometria e la matematica, fu stimolo alla sua sete di infinito, al suo sentimento poetico dell’«immensità del creato», quasi preludio alla poesia delle grandi pagine della Vita ispirate agli spettacoli della natura solitaria, degli spazi smisurati nelle solitudini ghiacciate del Nord o negli aridi deserti spagnoli.

10 Si noti però che nella Vita egli ha un concetto molto alto della cultura e, soprattutto, considera vera cultura quella classica e italiana e, specie nella seconda stesura, svaluta troppo la sua formazione francese e illuministica, sia per la sua crescente avversione antifrancese sia guardando principalmente alla sua professione di poeta, e quindi dando grande importanza alla preparazione linguistica e letteraria, classica e italiana, necessaria a quella professione.

11 Il «salvatico pensatore» (come si chiama con qualche ironia nella Vita cit., I, p. 98) era una mescolanza («assai originale e risibile») di qualità piú sue e di atteggiamenti piú esteriori derivati da aspetti meno approfonditi delle sue letture. Cosí nelle due lettere del ’69 al cognato, da Berlino, si possono cogliere accenti piú suoi e riflessioni piú superficiali e disparate, tipiche della sua cultura non bene unificata: significativo l’accenno al vaccino antitifico, la cui mancata introduzione in Piemonte è commentata con un’attenzione all’utilità sociale che è piú del secolo “illuminato” che non dei veri interessi alfieriani («je suis honteux pour ma patrie, qu’elle veuille être la dernière à adopter une découverte si utile à l’humanité»; V. Alfieri, Epistolario, ed. critica a cura di L. Caretti, 3 voll., Asti, Casa d’Alfieri, 1963-1981-1989, I, p. 8); e tipica è la riflessione sulla relativa utilità dei viaggi e sulla saggezza del «filosofo» che trova la felicità nel limitare i propri desideri, che è riflesso di motivi montaigniani non ben assimilati e contrastanti con l’irrequietezza che spingeva il giovane viaggiatore alle sue esperienze esaurite e rinnovate al di là di ogni limite di saggezza: «pour moi je sents qu’il faut sacrifier quelques années aux voyages, mais c’est dans l’intention de jouir tranquillement du fruit qu’on en retire, après tout aux yeux du Philosophe il est bien petit: on finit par conclure que les hommes sous différentes décorations sont partout les mêmes et qu’il n’y en a d’heureux sur la terre que ceux qui sçavent mettre des bornes a leurs désirs» (Epistolario cit., I, p. 6).

12 Fra le amicizie con stranieri e italiani all’estero importante particolarmente per la formazione dell’Alfieri poté essere quella del marchese Caracciolo, ministro di Napoli a Londra, «uomo», scrisse nella Vita (ed. cit., I, p. 107), «di alto sagace e faceto ingegno», ben adatto a confermare in lui prospettive antidispotiche e anticlericali con la sua conversazione brillante ed energica: si ricordi almeno la risposta da lui data al re di Inghilterra che si rallegrava con lui per la soppressione dei gesuiti nel Regno di Napoli: «Il faut espérer, Sire, que com’on a commencé par les Jesuites, on finira par les Cappucins». E poiché il re si meravigliava dell’accenno ai cappuccini, che «sont des braves gens», il Caracciolo rispose: «c’est pour cela, Sire, que je les ai mis les derniers» (cfr. F. Mazzei, Memorie, Lugano, Tip. della Svizzera italiana, 1845, I, p. 313, citato da E. Bertana, Vittorio Alfieri studiato nella vita, nel pensiero e nell’arte, con lettere e documenti inediti, ritratti e fac-simile, Torino, Loescher, 1902, p. 79).

13 Si ricordino (anche in dissenso con l’ammirazione di tanti illuministi) le battute della Vita, in relazione ai viaggi a Berlino e a Pietroburgo, sulla «universal caserma prussiana» «continuazione di un solo corpo di guardia», su Caterina II «Clitennestra filosofessa», o il resoconto crudissimo della visita a Zorendorf, campo di battaglia tra russi e prussiani, «dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio» (Vita cit., I, p. 105).

14 Epistolario cit., I pp. 10-11.

15 Ivi, pp. 17 e 22.

16 Pubblicata da L. Caretti in Il ‘fidato’ Elia e altre note alfieriane, Padova, Liviana Editrice, 1961, pp. 32-34.

17 Vita cit., I, pp. 102-103.

18 Ivi, p. 127.

19 Ivi, pp. 131-132.

20 Son. 110, v. 1; in V. Alfieri, Rime, ed. critica a cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, p. 96.

21 Proprio per lui l’Alfieri nella Vita (ed. cit., I, p. 204) esalta il «santo legame della schietta amicizia», «bisogno di prima necessità», «reciproco sfogo delle umane debolezze», tanto piú perciò rarissimo specie per un’indole «ritrosa e difficile e severa» come quella che l’Alfieri riconosceva a se stesso.

22 Si ricordi che, secondo le leggi piemontesi, l’Alfieri in quanto nobile doveva chiedere al re, volta per volta, il permesso di recarsi e di prolungare i suoi soggiorni fuori del Piemonte e, in quanto suddito, doveva chiedergli l’autorizzazione di pubblicare le proprie opere.

23 Vita cit., I, p. 237.

24 Sonetto 16; in Rime cit., p. 14:

Vuota insalubre regïon, che stato

ti vai nomando, aridi campi incolti;

squallidi oppressi estenüati volti

di popol rio codardo e insanguinato:

prepotente, e non libero senato

di vili astuti in lucid’ostro involti;

ricchi patrizj, e piú che ricchi, stolti;

prence, cui fa sciocchezza altrui beato:

città, non cittadini; augusti tempi,

religïon non già; leggi, che ingiuste

ogni lustro cangiar vede, ma in peggio:

chiavi, che compre un dí schiudeano agli empi

del ciel le porte, or per età vetuste:

oh! se’ tu Roma, o d’ogni vizio il seggio?

25 Vita cit., I, p. 234.

26 Epigramma XIII; Rime cit., p. 183:

Il Papa è papa e re:

déssi abborrir per tre.

Epigramma X; ivi, p. 182:

Tutto rosso fuor che il viso,

chi sarà quest’animale?

Molta feccia e poco sale

l’han dagli uomini diviso...

È un cardinale.

27 Dopo il I volume con le prime quattro tragedie l’Alfieri pubblicò, ancora a Siena, un II volume con altre sei tragedie, sempre nell’83. Un III volume senese con altre quattro tragedie fu pubblicato nel 1785.

28 Lettere del 22 dicembre 1789 e del 10 febbraio 1790; in Epistolario cit., pp. 24 e 27.

29 Ivi, p. 79.

30 U. Foscolo, Saggi di letteratura italiana, Parte II, ed. critica a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 514.

31 Son. 162, v. 6; Rime cit., p. 137.

32 Son. 287, v. 1; ivi, p. 233.

33 Il Misogallo, son. XLII, v. 14; in V. Alfieri, Scritti politici e morali, III, ed. critica a cura di C. Mazzotta, Asti, Casa d’Alfieri, 1984, p. 408.

34 Stesura in prosa dell’Alceste II; cfr. V. Alfieri, Alceste prima, Alceste seconda, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Domenici e R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1985, p. 457 n. 2.

35 Vita cit., I, p. 351.